Quest'articolo è stato aggiornato il giorno: venerdì 29 ottobre, 2021
Una volta, si premeva un tasto, fisico: era il famoso ‘play’.
Ancora prima, si faceva coincidere una piccolissima testina ad un solco scavato nel vinile.
In tempi ancora più remoti, si davano un po’ di avanzi e (forse) qualche spiccio ad un cantore, magari in una fredda e piovosa sera invernale.
È la musica: ovvero quella strana combinazione, armoniosa, di perturbazioni nell’aria, entro una certa frequenza ed ampiezza, che i nostri timpani riescono a percepire.
In qualche modo, tali perturbazioni devono comunque partire… E qualcuno, o qualcosa, deve pur sempre emetterle.
Che siano le corde vocali umane, strumenti da percussione, da solfeggio oppure una bobina magnetica che vibra, in qualche modo le onde sonore devono esser create, affinché noi le si possa udire.
L’essere umano eccelle, da sempre, nel costruire strumenti ed attrezzi vari che potenzino i suoi sensi naturali; e che, di riflesso, gli possano facilitare un po’ l’esistenza.
Far musica, e divulgarla in ogni modo possibile, rientra nel discorso.
Negli ultimi cinquant'anni, la tecnologia ha così modificato il concetto stesso di ‘ascolto’ che, a ben vedere, anche i nostri gusti e le nostre tendenze di genere sonoro si sono modificate; se il mondo è diventato sempre più ‘mobile’, con i servizi incentrati sull’utente e non più il contrario, anche la musica ha seguito il passo.
In realtà, la musica ha sempre seguito il passo della tecnologia, perché di essa, se vogliamo, è figlia.
Ecco quindi una breve cronistoria della musica portatile: alcune innovazioni, magari pensate venti, trenta o anche quarant'anni fa, le troverete ancora incredibilmente attuali.
Così come troverete che molte altre trovate, decisamente più moderne, non abbiano mai veramente sfondato… O, in casi non così singolari, si siano dimostrate autentici flop.
Comunque sia, la storia della musica, e della tecnologia che le sta dietro, è un viaggio affascinante; è un po' come ripercorrere i nostri albori, per cercare di carpire l'essenza stessa di quelle perturbazioni dell'aria così armoniose che ci piacciono tanto da ascoltare.
Sul finire del XIX secolo, il poliedrico multi-inventore americano chiamato Thomas Alva Edison, tra una genialata e l’altra, si accorse casualmente di un fenomeno decisamente curioso: se un disco di un telegrafo automatico (da lui stesso inventato, per automatizzare le comunicazioni in codice morse) girava ad una velocità adeguata, abbastanza alta, la testina che leggeva i rilievi del codice vibrava emettendo un suono paragonabile alla voce umana.
Il buon Thomas prese al balzo l’occasione, e progettò e costruì un cilindro in ottone, dal diametro di circa 10 cm, interamente rivestito di carta stagnola, e con solco a mo’ di spirale di circa 2,5 cm di larghezza, che percorreva tutto il cilindro.
Pochi anni dopo la geniale intuizione di Edison, un inventore tedesco chiamato Emile Berliner si impuntò nell’implementare un’idea che Edison stesso si rifiutò sempre di considerare per il suo fonografo: l’uso di un disco al posto di un cilindro.
I motivi dello scetticismo di Edison sull’uso del disco per incidere le tracce sonore erano di natura prettamente fisica: in un cilindro la velocità tangenziale è costante, e questo da Edison era ritenuto fondamentale per l’accuratezza dell’incisione.
Nel disco, data appunto la sua natura geometrica, la velocità tangenziale non è costante ma varia a seconda di dove è incisa la traccia: è maggiore verso la periferia della figura geometrica e minore verso il suo interno.
Ciò per Edison era un grosso problema e, a livello puramente matematico, bisogna dire che aveva ragione: la qualità di incisione su un supporto cilindrico è superiore a quella su un disco.
Tuttavia, il prototipo a disco di Berliner presentava i seguenti vantaggi, rispetto al fonografo a cilindro di Edison:
Berliner lanciò commercialmente la sua invenzione nel 1892, e furono introdotti svariati dischi, di svariato diametro, stampati su un solo lato.
I due modi di registrazione/riproduzione sonora, a cilindro ed a disco, convissero sul mercato per circa un ventennio, ma sul finire degli anni ’10, l’introduzione dei dischi a doppio lato di stampa, decretò la vittoria del disco sul cilindro.
Un duro colpo all’industria della fonografia arrivò nel 1925, con l’introduzione della radio: molti produttori fallirono, e l’intero settore, anche complice la grande depressione, non si risollevò veramente del tutto prima della fine del secondo grande conflitto mondiale.
Sul finire degli anni ’40, negli Stati Uniti d’America, venne messa a punto e commercializzata una tecnologia di stampa dei dischi che rimarrà per molti anni pressoché l’unica opzione possibile per il commercio di musica: il cloruro di polivinile, conosciuto con l’acronimo PVC e globalmente abbreviato semplicemente come vinile.
I dischi in vinile rimarranno sulla cresta dell’onda per almeno quarant'anni, rendendo la registrazione e la riproduzione sonora, grazie al loro costo competitivo, veramente alla portata di tutte le tasche, e di pressoché qualsiasi ceto sociale.
I dischi in PVC furono immediatamente un grandissimo successo in tutto il mondo, e per una serie di ottime ragioni:
Con la diffusione di massa del vinile, unita anche alla potenza della produzione industriale post-bellica dell’occidente, l’industria musicale si risollevò definitivamente dalla crisi, ed etichette e mayor discografiche diventarono i nuovi ‘mecenati’ per artisti, produttori, compositori e qualsiasi altro professionista dell’arte di Euterpe.
Una vera propria miniera d’oro che rimarrà tale, senza grosse variazioni sul modello di business, almeno fino alla metà degli anni ’80, con la diffusione di massa dei Compact Disc e dei riproduttori portatili a cassette.
Nel periodo d’oro del vinile, che va dalla fine degli anni ’40 all’inizio degli anni ’80, furono prodotti svariati formati di dischi, che si differenziavano tra loro principalmente per via di diametro, numero di giri al minuto e durata (per facciata stampata).
I più famosi e comperati erano:
Verso la prima metà degli anni ’50, in tutto il mondo si cominciano a commerciare appositi giradischi portatili, automatizzati, per l’ascolto della musica in mobilità, senza necessariamente aver a disposizione un complesso, ingombrante (e costoso) impianto fisso.
Il dispositivo, vero e proprio antenato dei nostri iPod e lettori MP3 vari, fu prodotto da innumerevoli costruttori e nelle più disparate forme e dimensioni, ma sostanzialmente tutti i modelli avevano delle caratteristiche comuni.
Erano portatili, quindi di dimensioni contenute (almeno, per l’epoca), accettavano prevalentemente dischi 45 giri (anche se alcuni avevano un selettore 33/45 giri), incorporavano piatto girevole, testina, relativo motore elettrico e, ovviamente, un altoparlante integrato.
Tutti quanti funzionavano a batteria.
Molti modelli erano incorporati nella radio delle autovetture, come si può facilmente evincere da molti famosi film di quelli anni.
Il grande successo del formato a 45 giri, che poteva contenere al massimo un paio di tracce (una per lato) è in gran parte dovuto al successo del mangiadischi: per la prima volta la musica era veramente ‘portatile’, ed il prezzo di un sistema completo era estremamente contenuto, permettendo quindi anche ai ceti meno abbienti la fruizione della musica, anche se non disponevano di un molto più costoso sistema casalingo.
Il mangiadischi ebbe il suo apice di successo fino all’inizio degli anni ’70, quando la tecnologia dei nastri magnetici cominciò ad essere disponibile ad un costo industrialmente conveniente.
Nel decennio della disco-music, delle basettone, dei pantaloni a zampa d'elefante e dei figli dei fiori, un nuovo standard irruppe di prepotenza nel mercato musicale: lo Stereo 8.
Nel 1935, mentre l’Europa si avviava, inconscia, a bruciare sotto il fuoco delle bombe della II Guerra Mondiale, la società tedesca Badische Anilin- und Soda Fabrik, meglio conosciuta con l’acronimo di BASF SE, mette a punto il primo supporto registrabile su nastro, a tecnologia magnetica.
La tecnologia si basava su un concetto semplice, sebbene di difficile (all’epoca) realizzazione pratica: un nastro di polietilene tereftalato, conosciuto commercialmente come Mylar, è rivestito di un materiale magnetizzabile (dotato quindi di permeabilità magnetica).
Usando la polarità magnetica come una traccia per i dati, più o meno alla stessa stregua del solco fisico di un disco in vinile, è possibile guidare una testina sensibile, permettendo di riprodurre generici dati a seconda delle istruzioni contenute sul nastro.
Poiché sono registrabili, e quindi magnetizzabili, infiniti valori (non solo d’informazione sonora) i campi di applicazione di tale tecnologia si sono rivelati, negli anni, pressoché sterminati: musica, video, stoccaggio di dati informatici generali… Di tutto.
La tecnologia a nastro magnetico, sebbene ora del tutto soppiantata dagli attuali mezzi di memorizzazione digitale, si è rivelata un vero e proprio coltellino svizzero, applicabile in svariati contesti, per almeno 30-35 anni.
Verso la metà degli anni ’60 del passato secolo, i costi di produzione e commercializzazione dei nastri magnetici divennero finalmente economicamente convenienti, talmente convenienti da convincere svariati produttori a cominciare a guardare alla tecnologia magnetica per la diffusione di musica su larga scala.
Uno dei primi tentativi assoluti, in tal senso, è un formato ormai diventato leggendario, ricercatissimo da collezionisti ed amatori: lo Stereo 8.
Nel 1964, l’inventore americano William “Bill” Powell Lear, ideò la costruzione di un’innovativa mono-bobina di nastro magnetico ad otto tracce, con l’insolita caratteristica (per l’epoca) di poter essere riprodotta a ciclo continuo.
Tale bobina, dalla notevole lunghezza ma dal diametro estremamente compatto, era contenuta in una cartuccia in plastica, rettangolare, dalle dimensioni anch’esse veramente ridotte.
L’inusuale ciclo continuo della bobina, l’estrema compattezza e la la grande portabilità ne fecero lo standard ‘de facto’ tra le industrie musicali per lo scambio interno del materiale musicale.
Visto il successo in ambito business, cominciò la distribuzione anche per le masse, e fu un ottimo successo: l’informazione sonora contenuta nelle cartucce Stereo 8 era di ottimo livello, in stereofonia (le otto tracce venivano lette due alla volta).
Le dimensioni contenute e l’estrema semplicità di sostituzione delle cartucce, lo resero perfetto per essere montato sulle autovetture.
Purtroppo, lo Stereo 8 non riuscì ad imporsi come standard assoluto del mercato per tutta una serie di motivi, tra cui anche la quasi contemporanea uscita, nel mondo consumer, della musicassetta.
Tale nuovo sistema di registrazione/riproduzione, effettivamente superiore allo Stereo 8, diventerà lo standard di mercato in breve tempo, e ci resterà per molti, molti anni.
Nel 1963, quando ancora il 45 giri era il re incontrastato del mercato musicale, soprattutto giovanile, e i Beatles facevano impazzire il mondo intero col loro ritmo inglese, la nota multinazionale olandese Philips lanciò sul mercato un prodotto veramente innovativo, sia a livello tecnologico puro che a livello concettuale: in un guscio protettivo plastico, un nastro magnetico era arrotolato su due bobine, e tenuto in tensione tra di esse in modo che una testina magneto-sensibile potesse leggerlo mentre si arrotolava da una bobina all’altra.
Datosi che il nastro poteva arrotolarsi bidirezionalmente su entrambe le bobine, era possibile incidere due tracce, una per ogni senso di scorrimento. Ciò prese il nome, divenuto famoso negli anni, di lato A e lato B.
Le prime musicassette erano monofoniche, con solo una traccia per lato, ma già alla fine degli anni ’60 il processo produttivo permise di incidere due tracce per senso di scorrimento, e si passò così alla stereofonia.
Il concetto fondamentale era pressoché uguale allo Stereo 8, ma la musicassetta aveva però molti vantaggi rispetto al sistema ideato da Bill Lear:
Tra il 1970 ed il 1980, colossi mondiali dell’elettronica come Sony, TDK, Maxell e, ovviamente, Philips, sfornarono una quantità enorme di dispositivi per musicassette, rendendo lo standard immensamente popolare in tutto il mondo, e soppiantando quasi totalmente il disco in vinile, almeno a livello di ascolto amatoriale.
I motivi del successo, in parte già spiegati, sono da ricondurre alla grande versatilità della musicassetta: non poteva contenere solo dati audio, ma un po’ di tutto.
Fu fondamentale anche per l’informatica: tantissimi calcolatori degli anni settanta ed ottanta, ad esempio (basti ricordare lo storico Commodore 64, o lo ZX Spectrum) fecero un uso massiccio del supporto per caricare i loro programmi.
Ancora, date le sue modeste dimensioni, il formato fu perfetto da inglobare nel mercato delle automobili: famosissimi, e tutt’ora usati in modelli delle auto degli anni ’90, sono gli impianti sonori per veicoli dotati di lettore a musicassette.
Vendutissime fino all'inizio degli anni 2000, anche se in affanno dietro al successo planetario del CD, le musicassette comunque sono ancora prodotte, seppur in quantità risibile, rispetto al passato. Per dare un'immagine della loro popolarità, basta ricordare che, almeno fino al 2005 circa, moltissimi produttori integravano ancora, nei loro impianti stereofonici da salotto, il lettore di musicassette.
Molto del successo del formato, a ben vedere, fu dettato anche dall’intuizione della multinazionale Sony, che per prima riuscì a miniaturizzare così tanto la tecnologia da realizzare, alla fine degli anni ’70, quello che diventerà l’icona mondiale della musica degli anni ’80: il Sony Walkman.
Commercializzato per la prima volta in Giappone nell’estate del 1979, il primo Walkman (modello TPS-L2) era un prodotto veramente superlativo, per l’epoca.
Compattissimo, questo riproduttore di musicassette permetteva davvero di portarsi la musica sempre con sé in pochissimo spazio, e con una qualità sonora invidiabile anche per un sistema Hi-FI casalingo.
Non aveva altoparlante, ma il suono era diramato attraverso una coppia di cuffie con filo, rendendone l’utilizzo discreto e, soprattutto, estremamente personale.
Il prezzo del primo modello, al lancio, era estremamente alto: circa 200 dollari americani, corrispondenti a circa 500-600 Euro attuali, che lo rendevano un prodotto di fascia decisamente alta, e quindi non alla portata di tutte le tasche.
Nella prima metà degli anni ’80, Sony riuscì a far calare i costi di produzione della sua linea Walkman così tanto che inondò il mercato di riproduttori portatili a prezzi stracciati, rendendo così la famiglia di dispositivi Walkman disponibile a tutti, sopratutto ai più giovani, che la elessero ad icona di quel periodo.
Con i costi di produzione ormai bassissimi, tutti gli altri produttori si gettarono nella mischia, creando ancora più concorrenza nel mercato, e facendo ancor di più abbassare i prezzi.
Alla fine degli anni ’80, il mercato era totalmente saturo di lettori a musicassette portatili.
I prezzi erano davvero per tutte le tasche: in Italia, si potevano comperare lettori super-economici per meno di £ 15.000 (circa 20-25 Euro, ai giorni nostri), oppure top di gamma, con equalizzatore manuale, per la stratosferica cifra di £ 200.000 (oltre 800 Euro).
Come accade spesso, l’apice del successo planetario delle musicassette e del Walkman coincise con l’inizio della loro fine.
E, in questo caso, la fine su grossa, e non solo per il settore della registrazione/riproduzione musicale: fu la fine della tecnologia analogica, e l’avvento, inarrestabile davvero, dell’informazione digitale.
Tutto cominciò con un disco, anche stavolta.
Nel 1969, un piccolo gruppo di fisici ed ingegneri in uno dei tanti centri di ricerca della multinazionale Philips, mise a punto un rudimentale, seppur efficace, sistema di riproduzione dati totalmente digitale, sfruttando le proprietà dei dischi ottici.
Ovvero: dischi in policarbonato trasparente, in cui è inglobato un sottilissimo strato metallico, in genere alluminio, su cui sono incise le informazioni, che un particolare raggio laser può leggere.
Incoraggiati dai primi esperimenti, i tecnici della Philips decisero di mettersi assieme ai loro colleghi della MCA (Music Society of America), che già anni prima aveva sviluppato e brevettato un disco ottico, seppur stavolta analogico, dalle considerevoli capacità di memorizzazione.
Il risultato dell’unione degli sforzi dei due gruppi si vide solo nel 1978, quando venne introdotto sul mercato il primo lettore LaserDisc.
Dal diametro esagerato, paragonabile più o meno ad un vecchio disco in vinile a 33 giri, è il primo disco ottico commercializzato della storia.
Capace di contenere dati sia audio che video, contrariamente a quanto si crede non aveva le informazioni di quest’ultimo codificate in sistema binario, quindi in digitale, ma erano analogiche.
L’audio, multi-traccia, poteva invece essere inciso sia digitalmente, che analogicamente.
La qualità video era elevatissima per l’epoca, in quanto il flusso dati era direttamente inciso senza alcuna compressione.
Poteva essere registrato su entrambi i lati, per circa 50 minuti di video per lato.
Sebbene fosse un sistema dalle considerevoli potenzialità, fu un flop commerciale pauroso: era troppo costoso per l’utenza media, che non ne apprezzava vantaggi significativi rispetto al sistema VHS (che all’epoca era estremamente popolare).
Ancora, con il suo diametro enorme, il LaserDisc era un supporto incredibilmente ingombrante; sebbene pensato per essere un intrattenimento da salotto, i 12” di diametro del disco lo rendevano un mostro di ingombro, al contrario dei più comodi, e compatti, videoregistratori VHS.
Nonostante il fiasco totale, Philips non si arrese e, unendo le forze con Sony, nel 1979 formò un consorzio per l’ulteriore sviluppo della tecnologia ottica.
Questo consorzio, nel 1982, porterà alla nascita del primo disco ottico totalmente digitale della storia: il Compact Disc, comunemente abbreviato come CD.
Basato più o meno sulla stessa tecnica costruttiva del LaserDisc, il nuovo formato si differenziava da quest’ultimo per delle peculiarità salienti:
Dalla struttura paragonabile a quella dei vecchi dischi musicali in vinile, anche i CD hanno i dati incisi in ordine su una traccia spirale, anche se tale spirale, al contrario dei dischi musicali in vinile, parte dal centro e si dirama verso l’esterno.
Questa caratteristica permette quindi di ottenere, volendo, CD di dimensioni più compatte rispetto ai 12 cm di diametro standard, pur mantenendo la compatibilità col lettore.
Ovviamente, questo genere di struttura fisica, come peraltro succede nei vinili, è ad accesso sequenziale.
Per la sua natura estremamente versatile, il CD può contenere pressoché ogni tipo di informazione, e per ogni esigenza di stoccaggio c’è un supporto fisico con una struttura dedicata.
Abbiamo così CD solo audio, CD dati (CD-ROM ovvero Read Only Memory), CD dati scrivibili (CD-R dove la R sta per ‘recordable’, ovvero scrivibile), CD dati ricrivibili (CD-RW, re-Writable)… Insomma, per ogni esigenza.
La lettura dei dati audio è costante: questo vuol dire che il laser legge i micro-solchi nella lamina d’alluminio sempre alla stessa velocità, sia che si tratti di posizioni intere o esterne al disco.
Questo è possibile variando la rotazione del disco: i dati al centro vengono letti a 500 giri al minuto, e quelli esterni a 200 giri al minuto.
I CD dati possono essere invece letti a qualsiasi velocità.
Per i formati logici, non avendo il CD bisogno di un vero e proprio file di Sistema, esistono però svariati sistemi di catalogazione, che vanno dal classico CD-Audio allo standard de facto ISO 9660, leggibile ormai da tutti i Sistemi Operativi moderni.
All’inizio della sua commercializzazione, il CD non ottenne immediatamente un ampio successo, e questo principalmente per due motivi: i sistemi completi erano carissimi ed i formati della musicassetta e del disco in vinile erano ancora estremamente popolari (anzi, come abbiamo visto, negli anni ’80 la musicassetta stava conoscendo il suo apice di successo).
Non avendo parti fisiche in contatto, in quanto i dati sono per l’appunto letti da un raggio laser, il problema delle distorsioni e dei fruscii, irrisolvibile del tutto nei sistemi a testina, è superato: il suono è classificabile come ‘puro’, senza disturbi all’origine.
Questa caratteristica fondamentale del CD, ed in linea generale di tutta la musica stoccata digitalmente, cozzò all’inizio contro un mercato non così attento alla purezza del suono e alla qualità come quello attuale: la gente badava molto più all’economicità, alla portabilità e al grado di diffusione.
Iil formato CD faticò non poco ad imporsi ma, verso la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, i costi di produzione e di commercializzazione si abbassarono enormemente, permettendo alle aziende produttrici di riversare sul mercato lettori CD Audio a prezzi concorrenziali.
Fu la svolta del settore: in pochissimi anni, il mercato passò dall’analogico al digitale pressoché in un lampo.
Grazie anche alla seconda diffusione di massa dell’informatica, il CD assunse il ruolo di ‘coltellino tuttofare’ e, con i suoi ben 650 MB di dati immagazzinabili (una quantità enorme, per l’epoca) cominciò a scalzare dalla poltrona anche il famoso floppy disk (che, in effetti, fu soppiantato del tutto verso la fine degli anni ’90).
Sul modello dei Walkman a cassette, vennero prodotti anche i lettori CD portatili, ed il gap con le musicassette venne colmato.
I prezzi dei riproduttori CD (i cosiddetti ‘masterizzatori’) cominciarono a diventare appetibili per tutti e, se questo diede un grande impulso all’evoluzione dello scambio dati informatico, d’altra parte fece partire tutto il mercato nero della pirateria, che cominciò a divenire inevitabilmente totalmente fuori controllo proprio con l’avvento di massa dei supporti digitali.
All’apice del suo successo, nel 2000, il formato CD audio aveva soppiantato totalmente musicassette, vinili e floppy disk (per quanto riguardava lo stoccaggio dati).
Tuttavia, la strada della musica, e dello scambio dati in generale, era ormai segnata: l’avvento della seconda ondata dell’Internet per le masse, ovverosia quel periodo storico che si fa coincidere, convenzionalmente, tra il 1997 ed il 2002 circa, all’inizio del nuovo millennio aveva già profondamente cambiato usi e gradimenti delle utenze.
I supporti di memoria fisica, di qualsiasi genere, cominciavano già ad essere sostituiti dal concetto di ‘rete’ e ‘streaming di contenuti’.
Correva grossomodo l’anno 2000, ed all’orizzonte la compressione Moving Picture Expert Group 1/2 Audio di livello 3, conosciuta commercialmente con l’acronimo MP3, e le nuove memorie a stato solido con tecnologia flash iniziavano a sconquassare il mercato dell’elettronica... E della musica.
Nel 1988, il consorzio MPEG (Moving Picture Expert Group), grazie ad un mega-finanziamento dell’Unione Europea, cominciò un programma di ricerca di nuovi compressori audio e video, per un mercato digitale che proprio allora cominciava ad essere davvero appetibile all’industria dell’intrattenimento.
Il consorzio, divenuto nel tempo famoso per aver dato i natali a pressoché qualsiasi codec audio e video che usiamo attualmente, nel 1989 riuscì a stilare le basi standard per il primo codec audio assoluto, ovvero l’MPEG-1.
Nel 1994, fu la volta dell’MPEG-2 che, standardizzato nello stesso anno, fu disponibile commercialmente nel 1995. Tale formato, rimasto famoso ed utilizzatissimo per molti anni, ha contribuito non poco alla diffusione di massa dello streaming video sull’Internet (e non solo sulla rete), nonché è tutt’ora utilizzato massicciamente come standard audio del formato DVD, oltre che da tanti network televisivi digitali.
Nel 1997, venne codificato il livello 3 del formato MPEG, che prese per l’appunto il nome di MP3.
Dotato di un ottimo algoritmo di compressione, l’MP3 è del tipo lossy, ovvero con perdita di dati.
Dati persi che, comunque, l’orecchio umano non riesce comunque a sentire: sono le frequenze a cui noi siamo letteralmente sordi, presenti in qualsiasi vibrazione sonora, che l’algoritmo MP3 può quindi eliminare, senza grossi problemi di qualità.
Grazie alla sua potente codifica con compressione, l’MP3 diventò ben presto il formato principe per l’audio: intere canzoni, su file pesantissimi in quanto in formati non compressi (si pensi ai .WAV ad esempio) potevano essere compresse in pochi MB, e questo rese il compressore ideale per la condivisione della musica sulla rete.
In un periodo dove connessioni a banda larga come ADSL e fibra ottica erano veramente appannaggio di pochi, e dove si era ben più che fortunati (e ricchi…) nel permettersi una ISDN a 128 Kbps, la musica messa in condivisione tramite la compressione MP3 esplose nell’Internet come una bomba atomica.
Non è un caso che le prime reti peer-to-peer della storia, parlando di quelle disponibili alle masse, siano coincise con la disponibilità di algoritmi di compressione come l’MP3.
Parlando di reti peer-to-peer pure, non è possibile non menzionare la prima, vera, rete totalmente serverless della storia, ovvero la rete Gnutella.
Pura rete peer-to-peer, composta da protocolli pubblici ed accessibili da chiunque, era (ed è ancora) la più grande rete punto-a-punto del mondo, con la storica funzione di ricerca file all’interno stesso dei nodi da cui la rete è composta.
Potenzialmente, una grandissima risorsa di informazioni condivise che, purtroppo, è stata anche usata, e massicciamente, per far girare illegalmente musica, film e tanti altri prodotti coperti da diritto d’autore.
Con l’avvento dei formati di compressione avanzata, come per l’appunto l’MP3, delle connessioni a velocità ‘sostenibile’ e prezzi dell’informatica sempre più convenienti, il mondo della musica assistette ad una profonda, ed ancora per certi versi in essere, rivoluzione: assunto che non è possibile bloccare totalmente la pirateria, e dopo anni ed anni di inutili battaglie (a volte, anche dispendiose e sciocche), le mayor e le più eminenti etichette mondiali hanno dovuto, giocoforza, puntare non più sulla vendita ‘fisica’ del supporto, e sui diritti d’autore ad essa collegati, ma il modello di business è stato totalmente stravolto.
I concerti live sono tornati ad essere essenziali, negli introiti di artisti e produttori, i prezzi delle canzoni sono divenuti economicamente accessibili a tutti, si possono acquistare singoli e canzoni senza dover per forza acquistate l’intero, eventuale album che le contiene, grande importanza è data dallo stare ‘sul pezzo’, ovvero sfruttare al massimo il momento di massima diffusione di un brano… O di un cantante.
Nel 2001, sull’onda del risanamento voluto (e ampiamente realizzato, col senno di poi) da Steve Jobs, Apple Computer immette sul mercato un dispositivo davvero ‘insolito’, almeno per la produzione aziendale di Cupertino: un lettore musicale MP3.
Ora come ora, passati molti bit digitali sotto il classico ponte, si potrebbe dire: “OK, cosa c’è di strano?” ma al tempo, la cosa fu abbastanza bizzarra.
Bizzarra per il fatto che il mercato dei CD era ancora floridissimo e, nonostante l’inizio della pirateria di massa, l’Internet non aveva ancora dettato la morte del supporto fisico.
Scelta bizzarra anche per il fatto che un’azienda che aveva da sempre prodotto esclusivamente calcolatori, anche se di nicchia, se ne uscisse fuori con un lettore musicale.
Si vocifera che dentro Apple stessa, molti dirigenti bollarono l’idea di Jobs come ‘stravaganza’, non intuendone in pieno tutte le opportunità.
In realtà, il compianto Steve ci aveva decisamente visto giusto… E lungo.
Il business dell’intrattenimento digitale, della fruizione dei contenuti e della loro distribuzione sarebbe esploso con un boato sonico proprio dopo pochi anni, ed Apple stessa ne sarebbe stata attrice primaria.
Il primo iPod prodotto dalla mela californiana era un gioiellino, per l’epoca: scocca in policarbonato bianco ed alluminio, design minimale, capiente (sempre per l’epoca) mini-HDD interno prodotto da Toshiba da 5GB.
Estremamente compatto e decisamente semplice da usare, anche per via dei suoi comandi molto funzionali, tutti gestiti da una ghiera meccanica, di forma circolare, che permetteva l’uso del dispositivo anche con una sola mano.
All’epoca concetti come servizi di cloud computing e hosting online erano abbastanza lontani dalle fantasie della gente, quindi iPod sincronizzava i suoi contenuti col Macintosh tramite cavo, e precisamente tramite connessione Firewire.
Via software, l’iPod si connetteva col neonato iTunes che, da semplice player MP3, negli anni sarebbe diventato uno dei software più importanti per Apple, oltreché una delle maggiori fonti di guadagno.
Commercializzato inizialmente solo negli USA e nel Canada, ebbe un buonissimo riscontro di vendite, che convinse Jobs a produrne una seconda generazione nel 2002, stavolta dotata di ghiera non più meccanica ma sensibile al tocco, e la sincronizzazione anche per sistemi con Microsoft Windows.
Diffuso in tutto il mondo, fu un successo planetario eccezionale: grazie al formato MP3 e al capiente disco interno, l’iPod può immagazzinare migliaia di canzoni, rendendo definitivamente obsoleti Walkman e lettori CD.
Ancora, i produttori mondiali di hardware e periferiche audio, capito al volo l’affare, si lanciarono nella commercializzazione di miriadi di periferiche, altoparlanti, interi sistemi Hi-Fi compatibili con il grande successo di iPod… È un’altra rivoluzione nella musica.
Gli utenti possono agevolmente caricare le loro librerie musicali dal PC all’iPod con pochissimi click e in brevissimo tempo; le canzoni si possono comodamente dividere per playlist, per gusti, per artista, per genere, e possono, sempre grazie ad iTunes, essere create infinite playlist personali.
Il successo di dimostrerà talmente grande che Apple produrrà, dal 2001 e fino al 2008, costantemente, una nuova versione aggiornata dell’iPod classico ogni anno.
Nel 2008, uno Steve Jobs ormai molto malato ma ancora alle redini di Apple, comunica che iPod ha venduto complessivamente oltre 160 milioni di pezzi, e che ha una quota di mercato di oltre il 70%.
Accanto all’iPod originale, tanti altri dispositivi da lui derivati, per le esigenze e le utenze più disparate: iPod mini, iPod nano, iPod shuffle, fino ad arrivare nel 2007, dove verrà commercializzato il primo iPod muti-touch, derivato in parte dal progetto iPhone: l’iPod Touch, che diventerà l’ammiraglia della serie.
L’integrazione con i servizi di cloud computing e la possibilità di avere sempre la propria libreria disponibile tramite Internet, senza dover necessariamente caricare i file fisici sulla memoria dell’iPod, è solo la recente evoluzione di una storia cominciata molto, molto tempo fa.
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